ISTITUTO DI CULTURA ITALO - TEDESCO
UNICA SEDE D'ESAMI AUTORIZZATA DAL GOETHE-INSTITUT
PER PADOVA E VICENZA
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6 NOVEMBRE 2020

Venerdì 6 novembre, ore 17.00 in sede
Helmuth Plessner. L’uomo come essere vivente (II)


Gli atteggiamenti espressivi o la gestualità (Gebärde) in senso lato sono invece immediati, non simbolici, involontari e non necessariamente legati a situazioni comunitarie. Attraverso l’atteggiamento corporeo e la raffinatezza della mimica facciale, la gestualità esterna direttamente le emozioni provate. Queste manifestazioni non sono forme sostitutive di altri atti o di parole (come invece i gesti simbolici) e non sono a loro volta sostituibili; non sono segni, strumenti di mediazione per la trasmissione di significati (si pensi ad esempio alla stretta di mano), ma specchio di emozioni, movimenti con un significato intrinseco che rimanda senza intermediari allo stato o all’impulso che li ha suscitati. E benché appartengano all’ampia categoria degli atti comportamentali, queste spontanee manifestazioni gestuali non sono azioni finalizzate, né residui di azione (come voleva Charles Darwin [1809-1882]) o surrogati di azione dovuti a fenomeni di associazione tra sensazioni (come suggeriva Theodor Piderit [1826-1912]). Più corretto è invece secondo Plessner seguire almeno in parte le indicazioni di Ludwig Klages (1872-1956), il quale interpreta l’espressione mimica come qualcosa di simile a una azione che, non essendo né un derivato né un succedaneo di questa, le si colloca accanto mantenendo una propria autonomia e un differente valore. Così conclude Plessner: «Tutti i monopoli dell’uomo, innanzitutto la capacità del linguaggio parlato, l’andatura eretta, l’affrancamento del campo occhio-mano, il comportamento strumentale verso la propria corporeità, la visione di sé stesso, sono ottenuti al costo di specifici svantaggi, insiti nella cosa stessa. Nessun animale è invalido per natura, vale a dire secondo il suo progetto. Solo l’uomo lo è, poiché proprio le capacità che gli garantiscono l’apertura alle cose nelle loro possibilità non gli tolgono questa apertura, ma gliela spezzano. La frattura nella sua visione del mondo viene tradizionalmente posta a carico del corpo. […] Soltanto un simile essere, ostacolato proprio attraverso il mezzo che gli dà il suo specifico potere, può ridere e piangere. Non si sbarazza della distanza da sé stesso ma la penetra, come il suo linguaggio e la sua strumentalità corporea. La finitezza, la mortalità è condivisa dall’uomo con tutto ciò che è vivente. Ma soltanto lui lo sa. La frattura, l’invalidità delle sue forze superiori può trarre forza da questo sapere oppure fallire, ma va attribuita alla finitezza. Si potrebbe persino vedervi un antagonista alla mortalità di ogni vita, una protesta della natura contro sé stessa» (Plessner, L’uomo come essere vivente, p. 12).

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