ISTITUTO DI CULTURA ITALO - TEDESCO
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PER PADOVA E VICENZA
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Helmuth Plessner - Per un’antropologia del sorriso

Venerdì 19 marzo, ore 17.00 in Zoom
Helmuth Plessner. Il sorriso (II)
Relatore: Stefano Martini
Link Zoom: https://us02web.zoom.us/j/82796198626?pwd=TkNKUnpFTitseVF5dVMwMFJTTllVdz09

ID riunione: 827 9619 8626
Passcode: 713250

Nell’Introduzione alla II edizione (1950) de Il riso e il pianto Plessner scrive: «Il sorriso è una modalità espressiva sui generis: 1. è una forma germinale, frenata e di passaggio al riso e al pianto, e perciò è una espressione mimica nell’ambito delle espressioni non mimiche; 2. è espressione mimica “di” e gesto “per” una sterminata quantità di sentimenti, sensazioni, azioni, relazioni e stati, come la cortesia e l’impaccio, la superiorità e l’imbarazzo, la compassione, la comprensione, l’indulgenza, la sciocchezza e la ragionevolezza, la dolcezza e l’ironia, l’irrilevanza e la lealtà, la difesa e la seduzione, lo stupore e il riconoscimento; 3. è gesto di costume ([…] dall’Asia orientale all’America), che dice tutto e nulla, e atteggiamento semplicemente rappresentativo, essendo specchio della eccentricità come distanza dell’uomo da se stesso». Quasi in forma di appunto, Plessner condensa i principali motivi che escludono l’opportunità di una trattazione congiunta del riso e del sorriso. A suo parere, il riso va trattato insieme al pianto, non al sorriso; perché come il pianto, riveste il significato assai particolare e ben definito di manifestazione estrema, di “limite comportamentale” e al contempo di superamento di detto limite. Come abbiamo già visto, dal punto di vista fenomenico, il riso è una manifestazione violenta e improvvisa; potente nella sua irruenza, e rumorosa, aperta e singolarmente coinvolgente; ma anche difficilmente controllabile, per molti aspetti “meccanica”, come se l’intera persona fosse improvvisamente caduta in preda a un processo puramente fisiologico, “profondo” e autonomo; tutto ciò è sintomo del fatto che il riso costituisce un fenomeno di rottura e di disorganizzazione, una manifestazione dal significato univoco e inequivocabile. Esattamente come il pianto, il riso testimonia l’irrompere di una crisi, di deragliamento dell’uomo rispetto a una situazione che lo spiazza; denuncia una insanabile (ancorché momentanea) debolezza, lasciando trasparire l’esistenza di uno iato all’interno dell’ente “eccentrico”; pur mantenendo integra la responsabilità della persona, esso quietanza una situazione, decreta una chiusura. Il sorriso è un’altra cosa. Il sorriso è un fenomeno assai diverso; e se si prescinde dal fatto che talora i processi di civilizzazione li hanno accomunati nella funzione di gesto simbolico o di maschera, il riso e il sorriso hanno ben poco a che vedere l’uno con l’altro, a partire dal fatto che la rozzezza del riso sembra male adattarsi all’immagine di un essere che si vuole «padrone di sé e del proprio linguaggio», che «cerca di affinare la propria esistenza corporea». Al contrario del riso, il sorriso costituisce uno strumento espressivo estremamente raffinato, duttile, polivalente, capace di mostrare – attraverso una configurazione solo apparentemente sempre identica – di quali livelli di autocontrollo e padronanza di sé sia in grado di disporre la natura umana. Libero, pertanto, ma altresì sempre imprigionato (come l’essere umano, d’altronde), equivoco e ambiguo, il sorriso rappresenta dal punto di vista espressivo l’emblema più azzeccato della condizione antropologica: è, in definitiva, la più autentica espressione dell’umanità dell’uomo.
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